domenica 25 dicembre 2022

"IL SALVADANAIO MAGICO", presentazione del Prof. F. Rossi.

  
"IL SALVADANAIO MAGICO"  
Presentazione del Prof. F. Rossi 
Prof. Ordinario di Linguistica Italiana - Dipartimento di Civiltà antiche e moderne dell'Università di Messina

Marje Dolores Merenda lavora sul valore pedagogico e morale, oltreché poetico, dell’immaginazione e della narrazione. Ce lo chiarisce fin dalla presentazione: le favole non sono soltanto belle, divertenti, gradevoli da leggere e da ascoltare, ma aiutano a vivere meglio, aiutano il bambino a fortificarsi e a intessere legami più solidi e funzionali con gli altri e con il mondo. Aiutano, in una parola, a crescere sani. Il tema prediletto dell’autrice è, anche in questa raccolta, quello del binomio Bambini e Natura, o meglio la Sintonia Essere umano – Natura. Il male nasce quando si infrange questa sintonia. Favola emblematica al riguardo è La leggenda del ficodindia, che parte apparentemente da lontano (dal Messico, la terra degli Aztechi) per ricondurci però alla Sicilia fin dal titolo, con la pianta rappresentativa della nostra isola. Quello della natura, insieme con quello della famiglia, è un tema portante di ogni raccolta di favole di Marje Dolores Merenda. 

A me pare, però, che in quest’ultima raccolta emerga anche un tema nuovo: quello della parola, o meglio della sottrazione della parola, dell’importanza di una parola altra, più leggera, più sommessa, prossima al silenzio. Le parole sono fondamentali, nella narrazione, ma l’autrice, in effetti, in questa raccolta dà valore parimenti ai segnali, ai segni senza parole, ai linguaggi non verbali: i colori, i profumi, i suoni della natura. A p. 45 della Leggenda del ficodindiaquesta lingua altra è espressa con grande efficacia e sensibilità: «un linguaggio meraviglioso che non ha bisogno di spiegazioni e permette alla famiglia unita di intendersi senza parlare». È grazie a questo linguaggio altro, che lega gli affetti familiari, che i felini riescono a sconfiggere il gelo e a salvare la vita della loro pianta madre, Nopàl, ovvero il ficodindia.

Anche a p. 64, L’usignolo muto, torna il linguaggio non verbale mediante il quale l’imperatore del Giappone riesce a comunicare con l’usignolo: «Col tempo impararono a capirsi perché entrambi conoscevano il meraviglioso linguaggio dell’intuizione, che è linguaggio universale quando ascolti e parli agli altri con cuore aperto e sincero. L’uno poteva fidarsi dell’altro!».

È bello che una scrittrice, che vive di parole, riconosca, quasi per paradosso, questa importanza al non verbale, che qui è ribadito sin dal titolo: muto. Questa favola, poi, oltreché dedicata al rapporto tra uomo e natura, è incentrata sull’importanza della libertà. E il tema della libertà, connesso a quello della natura, si ricollega a quello della comunicazione non verbale. È infatti grazie alla libertà che i piccoli usignoli imparano a cantare, ed è, la loro lingua cantata, «una magia naturale, l’inno spontaneo alla bellezza e alla libertà, il canto che viene dal cuore e nessuna voce può essere più armoniosa ed intonata» (p. 71). La libertà dà la voce, dunque, ma, come sottolinea Cinzia Donatelli Noble nella prefazione, a p. 16, è vero anche l’opposto: la voce dà la libertà, perché ci collega agli altri.

Il rapporto tra il detto e l’indicibile, insomma, è la cifra distintiva di questa nuova raccolta di favole, il cui sottotitolo alternativo potrebbe essere Oltre le parole. Far parlare i libri perché ci dicano del non dire, della lingua alternativa a quella delle parole. In questo paradosso Marje Dolores mi sembra in linea con molti poeti e artisti che, dopo aver celebrato la parola nei suoi virtuosismi più sfrenati, approdano al silenzio. È quel che fa l’ultimo Fellini, nella Voce della luna, quando fa dire a Roberto Benigni, alla fine del film: «Eppure io credo che se ci fosse un po’ più di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire». Il riferimento al cinema mi rimanda ancora una volta, così come la musica, a un linguaggio alternativo a quello delle parole, cioè quello delle immagini e della fantasia, così vicino a quello delle favole e a quello dei meravigliosi disegni che impreziosiscono questa raccolta.

Ma vediamo altri brani del volume nei quali si esalta il valore del silenzio. A p. 95, U’ Mirìcu (L’ombelico, il mostro a guardia delle Gole di Tiberio nel Parco delle Madonie): «l’amabilità di quegli occhi pieni di lacrime che, senza parlare, esprimevano l’ansia e lo smarrimento». E ancora a p. 101: «quel volto soave che aveva saputo conquistarlo senza parlare».

Anche nella prima favola, eponima dell’intero volume, Il salvadanaio magico, incontriamo un interessante riferimento alle parole. Qui non viene esaltato il silenzio ma qualcosa che va comunque oltre le parole: il passaggio dall’astratto al concreto (p. 30).

Spesso più che le parole, la voce umana, conta la voce della natura, e soprattutto degli animali, come in ogni favola che si rispetti. Lo vediamo, tra l’altro, in La colomba e la civetta (p. 81). Questa favola, tra l’altro, contiene un altro tema carissimo all’autrice e dal valore educativo, etico e civile senza pari: la lotta contro il razzismo e la discriminazione a ogni livello. Le parole chiave della conclusione di questa favola sono infatti amoreaccoglienza e pregiudizi (p. 85).

E arriviamo all’ultima favola, Il volto del Tempo, p. 111: «i suoi occhi rilucevano come stelle e parlavano senza dire»; «Le facce trasognate del piccolo, nella mamma e del papà, più eloquenti di tanti sapienti discorsi, gli avevano raccontato una storia emozionante». Questa favola presenta uno scarto rispetto alle altre, anche nello stile dei disegni: prevalgono toni cupi (marrone) e malinconici. Apprendiamo infatti dalla prima pagina della raccolta che essa è stata scritta durante il Covid. Vi si scontrano due opposte tendenze: la giovane vita e il vecchissimo Tempo che non riesce a guardarsi né a fermarsi (pp. 112-114).

A me questa favola, percorsa da due forze contrastanti (l’inarrestabile vecchiaia del Tempo contrapposta alla vita appena sbocciata del neonato), richiama alla mente un brano musicale che voglio farvi ascoltate: la Passacaglia della vita, di Anonimo, appartenente alle canzonette morali e spirituali fiorite nell’ambiente devoto a S. Filippo Neri (1657). Come molte opere barocche (si pensi all’aria del Tempo nel Ritorno di Ulisse in patria di Claudio Monteverdi, 1640 o dalla Rappresentazione di Anima et di Corpo di Emilio de’ Cavalieri, 1600), anche questa passacaglia ha il Tempo come protagonista. Questo brano filippino mi pare renda alla perfezione il paradosso della bella favola di Marje Dolores: da un lato, infatti, sentiamo insistentemente ripetere il memento mori così caro al barocco: bisogna morire. Dall’altro, però, il ritmo di danza travolgente ci riconduce alla forza della vita inarrestabile, davvero come il contrasto tra il neonato e il vecchio nel Volto del Tempo. Tra l’altro anche nella favola si enfatizza l’importanza della musica (p. 110). Ascoltiamo questa splendida passacaglia, interpretata dal tenore inglese Ed Lyon (https://www.youtube.com/watch?v=qdj8FvcXywU).

Non fatevi fuorviare dalla presenza della morte nel brano, assente (almeno superficialmente) in Merenda, concentratevi invece sulla prossimità tra la spiritualità filippina e quella di queste favole: i bambini, l’attenzione agli aspetti pedagogici, la natura, la gioia della musica (e la gioia in genere: «santo della gioia» o il «giullare di Dio» era detto San Filippo Neri), tutti elementi che contrastano con la morte.

Come avete sentito, anche nella passacaglia si fa leva sull’impotenza della parola: «Dottrina non giova, parola non trova / Che plachi l’ardire, bisogna morire, bisogna morire».

La sottrazione della parola, va detto, è alle origini dell’estetica moderna, come dimostra un celebre passo del Trattato del Sublime, dello Pseudo Longino (I d.C.): a volte il silenzio (come quello con cui Aiace accoglie Ulisse, nell’Odissea) «è cosa grande e più sublime di qualunque discorso» (p. 50 dell’edizione curata da Giovanni Lombardo). Per non dire che l’ineffabile è alla base di ogni religione e di ogni spiritualità, con gli straordinari paradossi della tradizione giudaico-cristiana, in cui Dio è al contempo LogosVerbum, cioè parola, che dà la parola all’uomo, sì, ma al contempo è anche indicibile, impronunciabile da parte dell’uomo stesso (Non dire il nome di Dio invano). E per le fantasiose strade dell’etimologia mi piace ricordare l’origine del termine italiano parola, che non deriva dal latino verbum bensì dal greco evangelico parabolèparabola, cioè racconto per paragoni, ovvero prossimo alla favola. Insomma, la natura stessa della parola è fiabesca: sembra davvero il suggello ideale per le favole di Marje Dolores, anch’esse moderne parabole così intrise di spiritualità.

E allora sul potere discreto della parola mi piace concludere tornando all’inizio, alla presentazione dell’autrice (p. 10). La sua, quella delle sue favole, è una parola utile et humile come l’acqua secondo San Francesco, chiara e semplice ma che penetra in profondità, parola sommessa e centellinata, parola che rimane nel subconscio, nel sottobosco emotivo del bambino cui è indirizzata, che alimenta i sogni. Marje Dolores definisce la parola delle sue favole come «una peculiare subirrigazione a goccia con fertirrigazione». Mi piace molto la coincidenza, non so quanto ricercata o casuale, oppure inconscia, che viene a ricondurre il topos della parola sommessa, prossima al silenzio, con l’altro topos della natura, sempre vivo in Merenda. Non soltanto, infatti, la metafora dell’irrigazione riconduce alla terra, vivificata dalla parola fiabesca della raccolta, ma l’acqua-parola è definitiva francescanamente humile, da humus, terra. E la natura prende il sopravvento anche nel Volto del Tempo, come ricordate dal brano letto prima, e anche nel paragonare il Volto del Tempo, per l’appunto, alle «foglie trascinate dal vento», con quella felicissima assonanza tra la parola vento e la parola tempo. Ecco dunque che con profondo senso poetico e musicale i cinque topoi di Merenda si abbracciano in questa favola conclusiva: la forza vitale della natura, del vento e dei bambini, la parola taciuta, il trascorrere inarrestabile del tempo. Tutti insieme questi cinque topoi si stringono e si fortificano reciprocamente, anziché contraddirsi, proprio come le linee musicali della splendida passacaglia.

Anche il secondo esergo einsteiniano del libro (a p. 37) è sul valore del silenzio, in fondo: «L’immaginazione è più importante della conoscenza. La conoscenza è limitata, l’immaginazione racchiude il mondo». La conoscenza è logos, l’immaginazione è invece antilogos, è phantasìa. Ancora una volta, queste favole si sposano bene coi paradossi, di libri che esaltano il silenzio, dello scienziato che depriva di valore la conoscenza e di uno storico della lingua come me, che per professione si occupa di parole, chiamato da Marje Dolores a occuparsi dei densi silenzi del suo ultimo bel volume. 

A questo punto però mi taccio, per non smentire l’esaltazione della concisione e dei silenzi e non ritornare allo strapotere della parola.

PRESENTAZIONE "IL SALVADANAIO MAGICO"


PRESENTAZIONE 

"IL SALVADANAIO MAGICO" 





Gazzetta del Sud 07-03-2022


Gazzetta del Sud 20-02-2022


























lunedì 21 novembre 2022

 

Presentazione del libro "Il salvadanaio magico" agli alunni del liceo artistico 

R. Guttuso, Milazzo. 

Giornate di lettura nelle scuole. Progetto del ministero della cultura.



giovedì 15 luglio 2021

 In un mondo di favole: La poetessa Marje Dolores Merenda sul Magazine di "America oggi", New York .

 




sabato 2 giugno 2018

Presentazione del libro di poesie "Balla ancora con le stelle" di Marje Dolores Merenda Salone degli Specchi della Provincia Regionale di Messina 29 Maggio 2018




 

Fabio Rossi 
(Professore Ordinario di Linguistica italiana - Università di Messina)



Del titolo (che precede il programma televisivo e dunque non è certo ammiccamento di massa) Marje Dolores parlò a Uno mattina, nel 2005: si tratta della serata del 2002, data dell’incontro dell’autrice con il poeta Mario Luzi, in una notte stellata in Toscana.
Le altre pubblicazioni dell’autrice sono in prosa; si tratta di due raccolte di favole:
- L’Ammazzasette e il drago con le pantofole di velluto rosso ed altre favole, 2010
- Scontentino e il Maghetto e altre favole, 2015.
Le poesie che ho scelto per la mia analisi sono 9, tutte, peraltro, reperibili in internet, su Youtube, nella lettura e nell’interpretazione (quant’altre mai calda ed espressiva) del prof. Mario Gugliuzza da Castelbuono.
Che cosa accomuna queste poesie, tra loro e con le favole? Il vigoroso senso della natura e dell’importanza della sintonia tra uomo e natura. In questo caso, la vivida fede cattolica dell’autrice è ancora più evidente che nelle favole, ma è anch’essa, come credo di dimostrare nel commento delle poesie, un tutt’uno con l’amore per la natura. La natura non è altro che la manifestazione di Dio e il rapporto di sintonia tra uomo e natura mi pare omologo a quello tra gli uomini tra loro e tra gli uomini e Gesù.
Un altro tema portante di queste poesie è l’apparente assenza di dialogo. Quasi nessuna delle poesie, infatti, si rivolge a un Tu concreto, personificato, a meno che il Tu non siano Gesù o Dio e ad eccezione dell’unica poesia integralmente dialogica, più piece teatrale che poesia, vale a dire La mamma di Giuda. Come vedremo, è un dialogo anche una poesia centrale della raccolta, Il risveglio della sirenetta, anch’esso un dialogo tra madre e figlia. L’altra parziale eccezione è Presidente, hanno ammazzato mio figlio! Ebbene, secondo me la scarsità dei dialoghi è solo apparente (cioè, intendo dire che il dialogo c’è, ma non si vede, anche nelle poesie monologiche), perché in realtà è sempre soggiacente il dialogo dell’autrice con la natura. La natura è la vera protagonista di tutte queste poesie, insieme con l’io narrante. La natura si manifesta in vari elementi, nelle diverse poesie: il cielo, l’acqua, le foglie, il vento, i fiori, i colori...
L’altro elemento, il terzo, dopo Dio/Gesù e la natura, è costituito dai bambini: i bambini svolgono un ruolo essenziale nella produzione dell’autrice, non soltanto nelle favole, ma anche in queste poesie. Quasi sempre compare un bambino. E questo lega strettamente l’opera alla vita privata e professionale dell’autrice, che della cura dei bambini ha fatto una ragione di vita. Il quarto elemento è costituito dai reietti, dagli ultimi, dagli esclusi: Giuda, i poveri, i migranti, le prostitute, i “cattivi”.
Che cosa lega tutti e quattro questi argomenti? Evidentemente l’amore, tanto da farli sembrare tutti sottoelementi di un unico macroelemento, l’amore, che è il vero protagonista assoluto delle poesie di Merenda.
Ma la cosa interessante è questa: nessuna delle poesie parla espressamente d’amore, eccetto forse l’amore materno della Mamma di Giuda. Eppure, leggendole tutte, il lettore ha l’impressione che si tratti di un canzoniere d’amore: amore per la vita, per Gesù, per la natura.
A questo punto, per scendere dal generale della raccolta al particolare dei singoli componimenti, commenterò 9 poesie. Si tratta di un campione pari a circa un sesto dell’intera raccolta, che conta 51 poesie in totale.
Come tutte le raccolte di Marje Dolores Merenda, anche questa è bilingue, con testo inglese a fronte, a opera di Sophie Stockbridge con la supervisione e le premesse della professoressa Cinzia Donatelli Noble della Brigham Young University di Provo (Utah).
- La mamma di Giuda: p. 26. Mamma (allocutivo) e non madre. La poesia fin dal titolo vuole evocare amore, non punizione. Madre, anziché mamma, compare, nella poesia, sempre con finzione di allocutivo, pronunciato da Giuda, ma lì lo stile deve essere solenne, da dramma teatrale sacro, per questo madre è più appropriato, mentre mamma avrebbe abbassato il tono. Ma il mamma nel titolo ci fa capire che il punto di vista è dal basso, non dall’alto, è quello di Marje Dolores, poeta e mamma, che vuole dare tutto il peso a quella parola.
Questa poesia, come si diceva, contiene l’unico vero dialogo di tutta la raccolta, con un Tu che non sia la natura. Ma anche qui compare la natura: agnello, lupi, pecorella, albero (strumento della predestinazione) e terra soffice come un tappeto. Nulla può più dell’amore di una madre e di quello di Gesù, e dunque amore al quadrato, quello della mamma di Gesù, madre al pari di quella di Giuda. Neppure la predestinazione alla dannazione di Giuda può più dell’amore di una madre: «la parte del traditore è toccata a me», con il termine parte che sottolinea la teatralità della scena. Anche l’insistito uso del verbo devo sottolinea la forza della predestinazione, tanto più forte per far poi risaltare, per contrasto, la forza dell’amore delle due mamme (di Giuda e di Gesù) che andranno oltre la predestinazione.
In questa poesia compare un altro tema molto presente in tutta la produzione di Marje Dolores Merenda, cioè il tema della compassione. Anche i peggiori meritano compassione, i cosiddetti cattivi. E Giuda, prototipo di cattivo, è qui guardato non con gli occhi di chi lo giudica il traditore di Cristo, ma con gli occhi di una madre, di sua madre ma anche della madre di Gesù. Tutti i peggiori sono guardati con compassione dall’autrice: Caino, chi spara con i kalashnikov, il carnefice, lo sfruttatore, il mafioso. Il cattivo non è mai veramente dannato, c’è sempre uno spiraglio di salvezza per lui o per lei.
Il tono dialogico, quasi parlato a teatro, è ribadito anche graficamente, mediante l’allungamento della a di Giudaa, nel primo verso. Il fenomeno si ripete poi nell’allungamento vocalico della o di No-oo! detto da Satana. Con ricercato contrasto tra chiaro (a) e scuro (o), bene e male. I richiami a distanza, nella stessa poesia e tra diverse poesie, cioè l’intertestualità, rendono grandi i testi, perché vivi, dialoganti tra loro, tramati di reti di connessioni (textus, etimologicamente, è il tessuto, cioè l’intreccio di fili).
L’altra parola chiave della poesia è ultimi.
- Fiori di strada: p. 42. In questa poesia, l’elemento della natura si fonde con l’elemento degli ultimi fin dal titolo: fiori e di strada. E i due elementi si alternano e si intrecciano lungo tutta la poesia, dedicata al dramma della prostituzione, specialmente quella giovanile e migrante. Evidenti le contrapposizioni, acqua e aride, fresca e lordati. E alla fine torna la parola chiave mamma, già prima anticipata da figlie di Dio. La natura è dunque il conforto offerto dalla madre alle figlie martoriate e vilipese. E, come vedete, i nostri 4 elementi cooperano tutti alla costruzione del testo poetico: Dio, bambini, natura, ultimi.
- Nell’orto degli ulivi: p. 54. Ritorna lo scenario di Giuda, sebbene non nominato qui direttamente ma evocato dall’orto dei Getsemani. Ora a dominare la scena è il Gesù morente, dunque figlio e figura di ultimo, e tutti gli elementi della natura sono strumenti della sua morte e redenzione: orto, ulivi, frusta, terreno, aria, sudore, sangue, monte, polvere, aceto, spine. Un po’ come accade in tanta iconografia pittorica (per esempio in quella umbra), con gli strumenti della passione ben in vista già nel gioco di Gesù bambino, che, sincreticamente, è bambino, uomo, morto e risorto al contempo, in quanto tutto già previsto dal disegno divino. Anche qui dunque tornano tutti e quattro gli elementi. L’elemento del bambino, del figlio, è ribadito dalla presenza della madre, Maria, che assiste alla morte del figlio.
- Il risveglio della sirenetta: p. 74. Si tratta della mia poesia preferita, per la densità semantica, l’alta caratura emotiva e l’afflato sociale. La fede in Dio è qui chiaramente un tutt’uno con l’amore per la natura e per l’uomo. La poesia si apre con la parola Mamma, ripetuta. È dunque un altro dialogo madre/figlio, stavolta figlia bambina, la sirenetta. Bambini e natura, dunque, come nostri Leit Motive, compaiono fin dal titolo. Ecco dunque i pesci (strani, perché senza né pinne né coda: dunque animali, reietti, ultimi, altro Leit Motiv, come evidente nel presieguo della poesia). A proposito della sintonia tra l’uomo e la natura, l’elemento centrale per eccellenza di questo poesie, il primo dei Leit Motive, come  ho detto, c’è qui una spia fraseologica preziosa. Scusate, ma il mio mestiere di linguista mi induce a non considerare quasi mai come casuali i fatti di forma e a ricondurre anche lo stile sotto l’egida della grammatica, cioè delle risorse comunicative che la nostra lingua, come qualunque lingua umana, ci mette a disposizione. Qui non è, come prevedibile, la Sirenetta che si rotola nell’acqua, ma il tratto semantico (il sèma, come si chiama tecnicamente) dell’umanità si riverbera all’acqua: è l’acqua che «le si rotolava dolcemente sul dorso». Qui, oltre al dialogo esplicito tra la mamma e la sirenetta, c’è quello implicito, dell’uomo con la natura, cioè della bambina pesce con l’acqua, elemento vitale per antonomasia.
Anche l’uso ribadito del che polivalente (cioè a metà strada tra relativo e causale: «ché le piaceva scorrazzare», «ché molti ne custodiva») è spia di avvicinamento al parlato, cioè all’essenza della lingua, a una lingua senza fronzoli, diritta all’essenziale, all’acqua della vita.
Nella seconda parte della poesia, gli elementi della natura si fanno cruenti, perché sono un tutt’uno con i crimini dell’uomo: ecco dunque che dai «pugnetti stretti stretti» dei bambini migranti morti ammazzati si passa al vento, al sangue, alla sabbia del deserto. Ma poi subito ancora ad elementi vitali, sempre della natura, che contrastano con la morte: e allora il deserto africano è un «soffice tappeto per i primi passi incerti di bimbi», ecco che compaiono le «gazzelle» che giocano con quei bimbi. Insomma, dalla sintonia uomo natura, si passa alla distonia prodotta dal sangue, causato dall’uomo, e poi di nuovo alla sintonia tra bimbi e natura, che, quand’anche impervia (deserto), diventa madre che gioca con i suoi figli. In altre parole, è l’uomo occidentale  che trasforma la natura in matrigna (distonica con l’uomo), laddove la sua essenza intima è quella di essere sempre natura madre (in sintonia con l’uomo). Non vi sarà sfuggito che il riferimento alla terra soffice come un tappeto ritorna dalla Mamma di Giuda: è uno di quei preziosi riferimenti intertestuali di cui parlavo poc’anzi. E l’elenco degli elementi sintonici della natura continua con i tramonti, le oasi, le palme, le capanne, ecc. Lo stretti stretti, poco sopra evocato per i bambini, qui passa ora all’inumano stipamento dei migranti sui barconi della morte. E qui ancora, per colpa degli uomini avidi, ecco che la natura si fa cattiva, distonica, matrigna: col sangue e la «notte senza luna e senza stelle».
Ma la mamma non può rivelare l’orrore della morte alla figlia, ed ecco dunque che torna la sintonia, stavolta sognata o artefatta ad usum filiae, un po’ come nella Vita è bella. E dunque i bimbi non sono morti ma addormentati e i loro occhi sono chiusi «per trattenere i sogni». Ed ecco il profumo del pane e i giardini verdi. E l’ultimo sintagma della poesia è tutto proiettato verso il futuro: l’anima libera. Una poesia che si apre e chiude sul bene: mamma e libertà dell’anima, passando per i mali del mondo, in un continuo alternare tra sintonia e distonia con la natura, in cui, tuttavia, il male, la distonia, non è insito nella natura, sibbene nell’uomo, che riesce, a volte, a distorcere la stessa natura. Eppure la fede di Marje Dolores Merenda è tale da vedere, alla fine del male, il bene, il trionfo della sintonia, nel tradimento di Giuda tanto quanto nella morte dei migranti.
Questa poesia, come si vede, tocca un tema sociale fortissimo e potrebbe sembrare distante dagli altri componimenti di Merenda. In realtà, il Leit Motiv degli ultimi si coniuga spesso con temi sociali e politici nell’intera opera dell’autrice. Basti pensare a titoli come Presidente, hanno ammazzato mio figlio!, o Il pianto di Abele, o Il pane dei fratelli, o ancora I nuovi poveri, o soprattutto A Falcone e Borsellino e molti altri. Anzi direi che, a ben guardare, i temi cruciali della contemporaneità non sono mai veramente disgiunti dalle poesie di Marje Dolores.
Le epigrafi delle raccolte. La chiave di lettura che vede nella natura l’elemento centrale di queste poesie è stabilita esplicitamente dalla stessa autrice, oltreché nelle stelle del titolo (ballando con le stelle indica proprio un rapporto di assoluta sintonia, a mo’ di abbraccio armonico, tra uomo e natura), nelle tre citazioni in esergo alla nuova e alla vecchia raccolta: «Il cielo e le stelle, i fiumi ed il mare, le montagne, gli alberi  ed i fiori, la natura tutta hanno una voce ed un’anima e... narrano la storia dell’universo» (p. 9). E poi ancora, a p. 25, l’esergo di Martin Luther King. All’inizio della vecchia raccolta, l’esergo di San Bernardo di Chiaravalle, a p. 98. Tre epigrafi tutte dedicate alla natura come chiave di vita e di lettura per queste poesie.
E poi, dalla vecchia raccolta:
- I nuovi poveri: p. 118. Qui gli ultimi sono al centro, ma la natura si intreccia, con un gioco di analogie e metafore, col tema cardine: ecco dunque al quinto verso, che i nuovi poveri sono «come cespugli ai margini delle strade». Qui viene rivitalizzata una catacresi, vale a dire una metafora ormai morta, talmente è cristallizzata nella lingua: quella della marginalità, dell’essere non al centro ma messo da parte, appunto «ai margini delle strade» (i cespugli, un po’ come i fiori di strada di cui sopra). E ancora, nella quarta strofa, tornano, in un’altra analogia, gli stessi elementi della natura caratteristici delle epigrafi sopra commentate: rocce, acqua e vento. E torna, nel prosieguo della poesia, l’altro elemento centrale, quello dei bambini, dei figli, stavolta in un modo insolito e, direi, militante: la pediatra Marje Dolores, e soprattutto la credente Marje Dolores, sa come conti poco la genitorialità genetica, e conti molto più quella del cuore e dell’amore: «sono tutti figli i bimbi della strada». E ancora tornano altri elementi della natura, a connotare in analogie e metafore l’intima povertà dei nuovi ricchi: l’arcobaleno, il prato verde, e soprattutto un altro sintagma chiave di questa raccolta poetica: «il profumo delle viole», che darà il titolo a una poesia successiva. E poi ancora l’acqua, i pulcini, le spighe, le rane, la quercia, la luce, l’odore della terra lavorata, il raccolto. E infine anche qui, come per Il risveglio della sirenetta, la poesia è conclusa dalla parola anima.
- Il profumo delle viole: p. 130. È questa la poesia preferita dall’autrice, com’ebbe ella stessa a dichiarare a Uno mattina nel 2005. Qui la natura domina dal titolo alla fine. E, congiuntamente, nella natura sono inseriti i bambini e gli ultimi: gli ammalati, i vecchi, le prostitute (ragazze in vendita), i mendicanti, ma anche i filosofi e gli scettici, i governanti e i signori della guerra, che sono, per così dire, fatti ultimi non dagli altri ma da sé stessi. E torna la parola chiave tappeto: «morbido tappeto di nuvole bianche». Compare anche la parola che dà il titolo alla raccolta: stelle. Ma l’uso linguistico qui più rilevante è l’anfibologia, il doppio e contrastante uso dell’aggettivo sostantivato rosso: prima evocato a metafora negativa di sangue, in contrasto con «il pane caldo per tutti», e poi a metafora di vera essenza della vita, insieme col verde, nella conclusione della poesia: «il rosso dei papaveri nei campi verdi a primavera».
- Poesia: p. 156. La centralità della natura è dimostrata dal fatto che la natura diventa poesia: tornano tutti gli elementi già incontrati nelle altre poesie (la rugiada, le nuvole, l’arcobaleno). La parola conclusiva è morte, ma contrastata dalla vita.
- Foglie secche: p. 232. Anche in questo caso, un elemento della natura dà il titolo alla poesia. Oltre ai casi già commentati, ciò accade in molte altre poesie della raccolta: All’alba, L’allodola, L’Aquila, Tempesta, Rondini, Tramonto, La pioggia, Autunno, Due stelle nel cielo ecc. Qui il male e la sfiducia sembrano dominare la poesia, fin dall’assenza di vita nelle foglie secche del titolo. Eppure, con l’ottimismo vitale che è la vera essenza poetica di Marje Dolores Merenda, alla fine è la vita a trionfare, e quelle stesse foglie secche diventano, pur nella disperazione (disperatamente), veicolo vitale (vivo con loro). Linguisticamente, spicca il fatto che le foglie, un tutt’uno con le speranze grazie all’analogia iniziale, non vengono più nominate, ma solo richiamate da pronomi. In questo modo, noi non possiamo sapere se il loro conclusivo si riferisca alle foglie o alle speranze: evidentemente, ad entrambe.
- Se mi cerchi: p. 244. L’elemento linguistico che più mi attrae è proprio il titolo, ancora una volta anfibologico: sia ipotetica senza apodosi, sia sostantivo (semicerchi). Non so se il secondo senso fosse voluto dall’autrice, ma non importa: in quanto lettore, sono sempre autorizzato a cooperare alla costruzione di senso, soprattutto in un testo scarsamente vincolante come quello poetico (il lettore è sempre coautore del testo: lector in fabula, secondo Eco; e la poesia è sempre di chi la legge, più che di chi l’ha scritta, come sostiene Skarmeta/Troisi, nel Postino). I semicerchi sono l’io e il tu della poesia, che insieme completano l’unità sintonica, il cerchio, appunto. E così, scusate il gioco di parole, si chiude il cerchio sulla dialogicità di queste poesie, con la quale ero partito. L’Io e il Tu della poesia sono, sì ovviamente, l’autore e il lettore, ma sono soprattutto, a un livello di interlocuzione più profondo, l’uomo e la natura. E la natura è l’unica in grado di chiudere il cerchio. Infatti, l’apodosi, la reggente, ellittica nel titolo, si manifesta fin dal secondo verso della poesia e poi in tutti i versi fino all’ultimo: se mi cerchi... mi vedrai..., volerò..., sarò... ecc.
Molte altre, naturalmente, sono le poesie ricche di spunti e meritevoli d’analisi linguistica, in questa ricca raccolta. Ma credo che le nove da me commentate abbiano reso a sufficienza l’idea dei temi cardine della poetica di Marje Dolores Merenda e possano dunque fungere da falsa riga per l’interpretazione delle rimanenti quarantadue poesie.
   
 Marje Dolores Merenda
 Chiusura dei lavori:

Ringrazio sentitamente la Professoressa G. Prestipino, Dirigente scolastico dei Licei La Farina e Basile, il Prof. Fabio Rossi, Prof. Ordinario di Linguistica Italiana dell’Università di Messina,  per la  disponibilità, la squisita sensibilità e l’entusiasmo coinvolgente con cui hanno  presentato il mio libro “Balla ancora con le stelle”.   
Voglio ringraziare  ancora la carissima E.Colicchi, Prof Ordinario di Pedagogia dell’Università di Messina, la prof.ssa Giovanna Lo Giudice, Anna Maria Gammeri dirigente dell’Istituto Superiore Bisazza, Linda Iapichino, la Preside Prof. Quattrocchi, le insegnanti Lilli Ieni, Elia Giusto, Loredana Currò, e  tutti gli altri insegnanti dell’istituto comprensivo di Gravitelli, Passamonti- Paino, che da anni mi danno la grande opportunità di incontrare tanti  dei loro alunni. Mi piace farvi sapere che alla scuola elementare Passamonti, sulla strada tracciata dalla professoressa Prestipino,  esiste una bellissima scuola di lettura dove ogni giorno si trasmette ai bambini l’amore per la lettura con la semplicità e la passione che a volte, anche da sole, in maniera sorprendente, possono bastare a realizzare progetti straordinari.
Ringrazio l’architetto Giusy Tomaselli che ha illustrato la copertina con grande originalità, Sophie Stockbridge che ha curato la traduzione in inglese, la giornalista A.M.Crisafulli Sartori e tutti i giornalisti presenti, il direttore della Gazzetta del Sud, Dottor Notarstefano, il dottor Nino Calarco, l’avv. G. Santalco. Ringrazio ancora il prof. Mario Gugliuzza che cura la lettura dei miei testi su you tube e ci regala tante emozioni con la sua bellissima voce.
Ringrazio moltissimo tutti voi per essere intervenuti così numerosi. Sono davvero onorata della vostra partecipazione affettuosa ed entusiasta, della vostra stima ed amicizia che apportano il calore giusto e necessario per rendere  questa serata particolarmente piacevole e preziosa.
Grazie  anche a  mio marito e ai miei figli che hanno corretto le bozze di questo libro e alla mia famiglia che costituisce la mia simpaticissima tifoseria personale.
Bernard de Fontaine, l’abate francese di Clairvaux, scrisse: “troverai più nei boschi che nei libri. Gli alberi e le rocce ti insegneranno cose che  nessun maestro ti dirà”. 
Ho provato ad osservare e ad ascoltare. La bellezza e la coralità della natura hanno un’anima che rimane viva e giovane nel corso dei secoli. Se sai ascoltare diventano voce, la voce magica narrante dell’universo.
Il canto degli uccelli, il fruscio delle fronde mosse dal vento, l’odore della terra dopo la pioggia, i colori accesi ed i profumi intensi della nostra isola, perfino il rumore silenzioso dei fiori che si piegano sugli steli e dei petali che si schiudono, il rumore dell’acqua che scorre, formano un singolare ed armonioso coro.
L’infinito intersecarsi di sensazioni ed emozioni che la nostra intuizione riesce a cogliere diventa parola scritta, o meglio, poesia.
“Balla ancora con le stelle” nasce dal desiderio di comunicare e condividere la gioia e la forza  di queste emozioni.
E’ una poesia semplice e modesta, libera, che cerca parole vere e comprensibili, immagini  limpide, versi freschi per un messaggio immediato e diretto affinché chiunque possa leggere senza fatica e trarne un po’ di serenità, la gioia di correre a piedi nudi sulle nuvole bianche fino a giungere alla sorgente della luce, fino a scoprire il profumo delle viole ed il rosso dei papaveri nei campi verdi a primavera. E’ un invito a volare  con la fantasia dentro le nuvole, sulle onde del mare e con il vento gioioso della vita. Ballare con le stelle sulle ali della speranza può aiutarci a superare le esperienze difficili e le molteplici ansie della vita.
Sono convinta che soprattutto oggi, nel nostro tempo caratterizzato dalla solitudine e dalla mancanza di dialogo, la poesia possa farsi interprete di una nuova forma di realismo e diventare strumento di comunicazione emotiva straordinariamente efficace, capace di svolgere anche una funzione sociale perché tutti abbiamo un grande bisogno di sperare e credere.
Si dice che Diogene girasse con una lanterna per cercare un amico, io credo che la poesia riesca a fare  molto di più e questo splendido pomeriggio  di amici certamente lo conferma.
 Grazie tante per avermi dedicato il vostro tempo.  

   
Gazzetta del Sud         Sabato 9 Giugno 2018          pag. 21
Arte, fede, poesia, musica e cultura a Messina

Presentata a Palazzo dei leoni la silloge della pediatra-poetessa
Il Canzoniere d'amore di Marje Dolores
Gli interventi della dirigente scolastica Pucci Prestipino e del Prof. Rossi

Anna Maria Crisafulli Sartori
Ascoltare le voci della natura, penetrare la sua anima, cogliere la bellezza delle piccole cose, comunicare ogni sensazione, ogni pensiero con un linguaggio diretto, che consenta alla poesia di svolgere la sua funzione sociale. Questo l’atteggiamento di Marje Dolores Merenda, pediatra, autrice di favole e di poesie, mossa dalla volontà di condividere col prossimo la propria visione positiva, gioiosa della vita, pur nella consapevolezza del male che è nel mondo, e di dare, con la sua arte, un contributo perché trionfi il bene. “Balla ancora con le stelle - Dance again with the stars” (in copertina il disegno dell’arch. Giusy Tomaselli), la sua più recente silloge poetica bilingue, che è stata presentata nel Salone degli specchi di Palazzo dei Leoni, si colloca in questo solco e si collega all’altra “Balla con le stelle” presentata, nell’agosto del 2005, a Uno Mattina Estate di RAI 1 e in una Università della Nuova Zelanda. Il talento artistico della Merenda è molto apprezzato dalla prof.ssa Cinzia Donatelli Noble della BrighamYoung University- Provo, Utah, USA, che firma, anche questa volta, la prefazione. Un breve, ma incisivo profilo della Merenda è stato tracciato dal Dirigente scolastico del “La Farina-Basile”, Giuseppa Prestipino, che ha ricordato, fra l’altro, l’esperienza coinvolgente dell’incontro della poetessa con gli alunni della scuola “Passamonti”, di cui è stata dirigente, che le ha dato modo di conoscere <il valore della persona, la sua sensibilità e la capacità di trasmettere ai piccoli messaggi di forte impatto emotivo>.
Una puntuale esegesi di nove delle cinquantuno liriche della silloge è stata quella del prof. Fabio Rossi, associato di linguistica italiana del nostro Ateneo, che l’ha definita <un canzoniere d’amore>. Ha poi sottolineato il forte legame tra i precedenti testi narrativi e queste liriche, assumendo quale chiave di lettura la definizione che Mario Luzi diede di queste poesie <simpatiche >, che etimologicamente sta a sottolineare <sintonia di affetti, emozioni, sentimenti>.
A recitare le liriche il Prof. Mario Gugliuzza.


Mentre sullo schermo scorrevano i versi, il pubblico ha ascoltato dalla voce recitante calda e suadente del prof. Mario Gugliuzza, liriche intense quale <La madre di Giuda>, testo <teatrale>, come ben sottolineato dal relatore, sul dramma di due madri, quella del traditore e quella del tradito, condannate entrambe a soffrire una pena profonda, ma animate dalla forza dell’amore. Perché anche lo scandaglio dell’animo di chi ha operato il male conduce la poetessa alla compassione, alla speranza del perdono. Ed ancora, liriche nate dall’amore per gli ultimi, per gli esclusi, come <Il risveglio della Sirenetta> che nelle acque che hanno inghiottito migranti, <più di cento>, chiede alla madre di quali strani pesci si tratti. Delicata l’immagine che si disegna: i bambini – come se dormissero, <tengono gli occhi chiusi> <per trattenere i sogni> e <un pugnetto di sabbia stringono forte nelle manine,/ per ricordare le proprie radici>. Intrisa di umanità anche <Fiori di strada> sul dramma della prostituzione. Ed ancora <I nuovi poveri>, dove, attraverso metafore e analogie- spiega il relatore, continuando nella sua analisi linguistica- sono messi a fuoco <temi cruciali del nostro tempo>. E, nonostante tutto,<ognuno di noi ha bisogno di sperare e di credere> ha detto, infine, Marje Dolores Merenda.

                                                                                            Anna Maria Crisafulli Sartori